Da un silenzio vissuto fino alla tensione estrema, fino all'attimo prima dell'esplosione, nascono i versi ispirati e le parole potenti che il libro d'esordio di Lorenzo Chiuchiù ci offre. "Traggo carne da parole / e sangue da silenzio..."
L'opera di Chiuchiù è un corpo vivo. Il poeta ha gli occhi spalancati sul mondo, occhi che si fanno nudi, pronti a ricevere la vita qual è nella sua bellezza, accolta senza scinderla da illusioni e inganni, né dalla morte, vera compagna. "T'innamorasti degli occhi: Io venni dopo" "Non mi sono dimenticato delle stelle - ho cicatrici sulla retina." Voci ancora cariche di silenzio, inteso come il 'non detto' che solo nell'espansione di parole urgenti e necessarie può trovare un'eco senza limiti in chi legge.
La ricerca di Chiuchiù, che scarnifica fino al sangue, che diventa ferita poi cicatrice, tra colori e suoni di un linguaggio a volte visionario, rende allo stesso tempo la forza e la sconfitta. La forza, quando ci restituisce il vero nome delle cose, nel coraggio libero del dare. La sconfitta, quando l'assenza di nomi diventa un'assenza di realtà, un non riuscire a riconoscere neppure se stessi. Eppure, "bisogna riscrivere... bisogna inventare / nomi immobili / fiamme d'argento".
Anche il fuoco, l'incendio, hanno una doppia valenza: hanno perso l'altezza, la luce, il calore e perfino la capacità di distruzione, di movimento, di cambiamento. "Oggi c'è il fuoco..." scrive, "e nessuno è cenere, nessuno deve spiegazioni al vento"; ma poi, umilmente e per necessità, la poesia si incendia con parole di carne, con grida rosso sangue di fronte all' "urlo che piaga la volta celeste." "Io da sotto, incendio notti / febbre nell'iride".
Chiuchiù benedice la memoria che gli sopravvive, sorride alle ore che infuriano mentre già vede se stesso salutarsi, e ha pagine bianche dove le voci, le armonie che scrive, "sembra che vivano. / Sembra che vivano."

Mariarita Stefanini

Ora, dimenticata la ruggine
sulla carne e il saluto
dell'appena nato,
invento rune sparse
che imprimono le piante dei piedi -
vado a casa senza la grazia
d'un abbandono da attraversare.
Ecco invece le dita:
cerchi arrugginiti,
"benvenuto addio"
e macchie d'identità
senza con ciò sapere
la differenza tra me vivo e morto.