FuoriCasa.Poesia

 

Bollettino N.1/2006

 

progetto e realizzazione

Alberto Bertoni - Stefano Massari

Giancarlo Sissa

 

Redazione

Alberto Bertoni - Mimmo Cangiano

Gianfranco Fabbri - Stefano Massari

Giancarlo Sissa - Nicola Vacca

 

www.fuoricasapoesia.blogspot.com 

 

spedito: 2 gennaio 2006

copie: 6377 

 

 

 

voltato l’anno . in questo tempo minaccioso e disorientante non cessa il cicaleccio ‘illuminato’ ‘democratico’ ‘santificante’ che su ogni campo fabbrica e propina direzioni e fedeltà sempre meno adeguate alla vertigine crescente di questo presente che chiede non un nome solo - non una sola strada . nel nostro infinitamente piccolo tentiamo di tenere aperta e costruttiva la nostra progettualità – individuale e condivisa – fedeli all’esperienza fatta e liberi dal dubbio dell’inutilità . liberi anche dall’ansia di un futuro frettoloso e dal fiato corto . quel che ci tocca è la domanda per nulla emblematica ma concreta e sanguinante - scoscesa e corale - di questo presente - senza mai perdere la volontà indispensabile dell’ascolto e della memoria . auguri . Lorenzo Chiuchiù ha appena pubblicato IRIDE INCENDIO (NIEBO, Ed. La Vita Felice diretta da Milo De Angelis) . apriamo nel suo urto necessario violento cristallino - nella sua tensione all’apice - dove la parola si compie dentro l’attimo incandescente in cui esistenza e visione collidono . l’inizio di un cammino pericoloso e fondamentale . entusiasmante . __ verso la fine di gennaio saranno disponbili i DVD di SECOLOZERO n.0/1 (tuttora disponibile su WEB fino al 7 gennaio) e n.2 di cui daremo notizia nel prossimo bollettino . buon inizio del cammino . a presto . sm

 

 

1. IRIDE INCENDIO di Lorenzo Chiuchiù

 

 

Gerarchie

 

I

Il dolore ha del magnete la voce,

chiama costellazioni le attese,

albeggia sprofondato

– ed ecco – diastole e unghie:

«Chi non sei? Chi sei stato?».

Ecco: è iniziato.

 

II

La melodia dell’eco

più distante del nome

più leale del cielo–

 

brancola la risposta

e il fiore vive senza permesso,

è l’eco, è l’adesso.

 

III

«Il cancello è fatto di spine e tempo:

spingi, sanguina, entra».

  


 

 

Oggi c’è il fuoco a delimitare

il chiodo delle pupille,

l’urto del grido,

il gesto interrotto e dimenticato.

 

Oggi c’è il fuoco a consacrare

inasprire e vanificare.

 

E nessuno è cenere

nessuno deve spiegazioni al vento.


 

 

 

Bisogna riscrivere

scrivere

    l’impero dei presagi,

dire: «Diventate!»

    alle corde vocali e alla prosa che salva–

 

bisogna inventare nomi immobili

fiamme d'argento,

minuti e luce che assediano il diluvio.

 

Diventa frana di luce

nel canto disperato

diventa frana di luce

del tuo sogno di nomi.

 

 

 


Ingranaggio di nervi e vecchi sguardi,

disillusione divina e fuoco

nelle carni brune,

allegoria e danza di dolore,

soffio di arterie trafitte,

adunata di bestie

che risplendono della vacuità

delle destinate.

 

Interminato elenco

di silenzio duro:

l’icore sparso

l’inverno

un’effimera che perde i colori.

 


 

 

Caddero le stelle come metalli tarlati d'incenso,

rigarono in un graffio lo sfondo

di un mare di resti neri.

 

Caddero una dopo l'altra finché stanche

di comparsare tremolanti discese, vollero desiderare

e non rimase che il desiderio.

 


 

 

Una porta che si apre,

un canto d’avvicinamento.

Trentadue anni in fuochi che bruciano vocali–

santificano asce di luce.

 

 

 

La poesia

una porta che si apre,

una luce che gela la grafia–

ma io sogno come il cielo.

Io sono immobile come il fuoco:

né disprezzo né amore:

dal divieto trasgredito affiorano i miei occhi.

Guardami.

Appartengono a Selene

e a chi non li vuole.

Guardami ora.

Aspetto la rima mancata, senza eco,

quando è carminio inginocchiato nelle vene,

quando è giglio nero.

 

Guarda, la porta è aperta. 

 

 

 


Bianco: come la colomba che una mattina di maggio vidi sul ciglio della strada e pensai che stesse aspettando qualche occhio di poeta a corto di fantasia– bianco: come povero quadrante di orologio di stazione, meccanica contabile vecchiezza sempre in attesa– acciaio di lame nelle quali mi specchio e mi inciprio il cervello- ruvido: di strada strisciata sulle ginocchia, cadendo veloci e l’anima strappata- bianco: alba bianca cieca: pathos di Caronte che attende i viaggiatori e stacca loro le teste– vino: in gocce lungo le tempie e raccolto da un bacio–  musica: di stelle che regalano idrogeno e esplodono in semibiscrome di ferro.

 

La danza

Parlammo di come si fabbricano aerei di carta e sogni di sangue, di come toccarsi senza innocenza e dell’innocenza, delle radici che nascono e spaccano il cranio dei poeti un passo più vicini all’inferno e un metro distanti dai miei indifferenti, parlammo del navigare a vista e del Nord rifiutato, del ferro delle ossa e di quello delle armi necessarie, dello spendersi per niente e niente in cambio, delle parole inservibili da sporcare a morte quel che resta e quello che non sarà, del dolore che è mai redento e mai lo sarà, parlammo del masticare un respiro e del lasciarlo perdere perché stanco da far pietà, del cullare il bambino di un altro. del cadere ridendo, dell’uccidere e del “perché no?”, parlammo dell’ossessione che chiamiamo Dio e diventa ciste e trappola, del solletico leggero artiglio alla nuca, della gioia-ghigliottina da bruciare in cenere di foglia e benzina e brivido.

 

 

 

 

Lorenzo Chiuchiù

 

(Perugia 1973)

Ha pubblicato studi su Hoffmann, Hrabal, Camus e Char in Estetica (Il Melangolo); e Davar (Diabasis); un dialogo fra Luigi Pareyson e Sergio Quinzio in Sergio Quinzio, il messia povero (Rubbettino, 2004). Ha tradotto Icarus in Assisi del poeta americano Murray Bodo (Minerva Edizioni, 2001). Ha curato la traduzione italiana dei seguenti saggi di Albert Camus: L’artista in prigione (Davar, I/2003, Diabasis) René Char (Davar, II/2005, Diabasis). Sempre di Camus ha curato e commentato Metafisica cristiana e neoplatonismo (Diabasis, 2004) La devozione alla croce, adattamento dell’opera di Calderón de la Barca.

E’ appena uscita la raccolta poetica Iride incendio (Niebo, Ed. La Vita Felice, Milano), con una intorduzione di Milo De Angelis. Insegna all'Accademia Lingua Italiana Assisi.

 

 

 2. ADORNO, GLI INTELLETTUALI E IL PERSONALE DI CUCINA di Mimmo Cangiano

 

   

“Il sacrificio dell’autodisciplina intellettuale riesce troppo facile a chi lo esegue perché si possa pensare che si tratti veramente di un sacrificio”.

Nell’oggi e nell’attuale italiano “mondo della poesia” vive indistruttibile e diffuso un sentimento di amore nei confronti di ciò che cade verso il basso, verso il familiare, verso una “mezza cultura” a cui si da il nome, ahinoi, di vita. Il poeta medio, costretto ormai dalle circostanze a procurarsi di che vivere con attività più o meno manuali, continua ad avvertire un sacrosanto senso di colpa verso gli esponenti, in senso intellettuale ed economico, di una classe sociale più bassa. Invece di agire nel senso di una trasformazione della società si comporta però da illuminato, tiene saldi per sé i propri privilegi e nel frattempo distribuisce mance, è disposto ad avallare, dall’alto di ciò che inconsciamente considera la propria posizione, le supposizioni dell’illetterato come poesia, salvaguardando per sé, ad ulteriore dimostrazione di una natura di classe, l’elaborazione dello stile, mascherando poi i suoi limiti nei termini di responsabilità sociale e comunicabilità. Ciò si spiega in quanto l’intellettuale avverte che l’uomo comune non è in grado di mettergli “i bastoni fra le ruote”: la mancata presa d’atto del “mondo poetico” come luogo di lavoro, non differente nelle sue modalità  dall’universo dei baristi o dal cosmo degli idraulici, getta le basi del nostro moralismo nella condanna di litigi, mezzucci e simili. Ma se questa è la società così come l’abbiamo tirata su in millenni di civiltà, non possiamo sperare che la “corporazione poesia” abbia al suo interno leggi differenti, anche la poesia è infatti una sovrastruttura decretata dai rapporti economici fra gli appartenenti alla specie uomo. I poeti però sembrano non capirlo e fuggono in campagna o “accorrono a frotte nei templi indiani”.

 

3. FUORIRIGA a cura di Nicola Vacca

 

 

Salutiamo con favore la nascita di una nuova casa editrice. Soprattutto quando essa decide di occuparsi anche di poesia. Da qualche mese sul mercato, la romana AZIMUT si è già  fatta notare grazie alla qualità  dei  libri pubblicati. Basta dare un’occhiata al sito (www.azimutlibri.com) per rendersi conto dell’originalità del progetto editoriale. Adriana Merola e Guido Farneti sono gli artefici di questa nuova avventura che propone il libro come oggetto prezioso, che va difeso dal desiderio del mero apparire. Adriana, avvocato e pittrice, (sono infatti  tutte sue le copertine dei volumi pubblicati) e Guido, poeta prima che editore, hanno in comune la grande passione per i libri. Questo infinito amore per la parola ha ispirato la fondazione della loro casa editrice, intesa finalmente come luogo d’incontro di diverse espressioni artistiche che interagendo tra loro danno vita a nuovi linguaggi, creando commistioni per raccontare storie ogni volta diverse. Questa è la formula di successo del marchio editoriale, tutto giovane è pieno di entusiasmo creativo. La conferma arriva dalla 4° edizione di PIU’ LIBRI PIU’ LIBERI, la fiera della piccola e media editoria che si è tenuta a Roma all’inizio di dicembre del 2005. Lo stand di AZIMUT ha registrato un forte numero di presenza e di vendite, confermandosi come la vera novità dell’intera manifestazione. Ma è con la poesia, come dicevamo, che la casa editrice tenta di conquistare i lettori italiani. Al fiuto di Guido Farneti si deve infatti la scoperta e la pubblicazione nella nostra lingua di un poeta straordinario come Leopoldo María Panero.

Pensavamo che la setta dei poeti maledetti si fosse estinta con la scomparsa di Baudeleaire, Rimbaud e Verlaine. Non speravamo mai di incontrarne uno nel terzo millennio. Invece il miracolo è avvenuto. Il suo nome è Leopoldo María Panero, spagnolo di Madrid, classe 1948. Panero è considerato l’autore più radicale della poesia spagnola degli ultimi tempi. Egli iniziò a vent’anni il suo scontro ininterrotto con le istituzioni psichiatriche e sociali. Nel 1968 tentò di suicidarsi due volte, ha conosciuto il carcere per motivi di droga, fu ricoverato ripetutamente in diversi manicomi. Ha trascorso maggior parte della sua vita internato in ospedali psichiatrici. Attualmente è recluso nel sanatorio di S.Francisco de Paula nell’isola di Gran Canaria. Passa il suo tempo a scrivere. Ha pubblicato più di trenta libri di poesia, narrativa e saggistica. Sconosciuto nella nostra lingua, arriva adesso nelle librerie tradotto magnificamente da Ianus Pravo,   “Narciso nell’accordo estremo dei flauti” (Azimut, pp.155, euro 11) la sua opera più importante scritta a Parigi alla fine degli anni settanta del secolo scorso. Grazie alla sensibilità , l’opera poetica di un genio della poesia europea è finalmente messa a disposizione dei lettori appassionati di libri di poesia. Poeta dalle tinte forti, Leopoldo María Panero si definisce un discepolo della follia. Inseguendo l’idea sublime del personale naufragio esistenziale, Panero spinge il disastro della sua vita fino all’esperienza estrema e in quest’ambito conduce una ricerca disperata della sua identità: non scrivo perché sono condannato, ma sono condannato perché scrivo.  E’ la follia il teatro estremo in cui naufraga la sua stagione all’inferno: Chiunque attraversi il tunnel della Paura /giunge fatalmente all’Ultimo  Specchio/dove una donna avvinghiata al tuo scheletro/ci mostra/faccia a faccia/l’inferno degli occhi sigillati/degli occhi per sempre spenti in una maschera/ di morta rappresentando nell’aldilà il teatro/estremo:/ cosí io guardai gli occhi che cancellarono la mia/anima/cosí ho guardato un tempo che non esiste/nell’Ultimo Specchio. La genialità visionaria di Panero è attraversata  da una follia tutta metafisica, allucinata da una scrittura crudele che non finisce mai di abitare la casa della pazzia. La canzone consumata della sua follia ci regala momenti di altissima poesia che derivano dall’apoteosi lirica di un cuore che si smaschera e mette a nudo tutte le ragioni schiette di una scrittura che cerca nella parola un’apoteosi di senso. Leopoldo María Panero è un autore titanico, che nella sua opera tenta una disperata difesa del mondo della parola contro il mondo del sorriso. Nella perfetta tradizione letteraria della poesia maledetta elegge la follia a sua Madonna, unica Signora con la quale danzare ai limiti del mondo, nel tentativo estremo di cogliere fuori  cornice lo spirito convertito in teatro vuoto. Il delirio di “Narciso nell’accordo estremo dei flauti” rappresenta il labirinto senza scampo di un’esperienza poetica in cerca nelle ragioni dell’assoluto: l’essenza dell’unica bellezza che esiste. Quella che insieme a terrore genera nell’incubo il sentiero azzurro della pazzia.

 

  

DUELIBRI a cura di Gianfranco Fabbri

 

Gianfranco Lauretano è un autore che rappresenta molto bene le istanze dell’uomo attuale. Con buona perizia si dipinge in OCCORREVA CHE NASCESSI (Marietti Editore, 2005), l’ultima sua raccolta di poesie, dove pare che riesca ad affrontare la propria componente spirituale attraverso una contenuta (se non addirittura quieta) “disperazione” esistenziale. Lo scostamento dei versi dal loro senso stretto dona nel contempo fastidio e piacere: fastidio, a causa del “fuggir per la tangente”, senza avere annotato con più sostanziale materia ciò che si voleva asserire; piacere, perché ne deriva una forte allusività, un’ambiguità che in poesia è sempre di buon auspicio. Chiaro è comunque il senso di isolamento (proprio dell’uomo inteso come “isola”) che Lauretano fa pervenire al lettore, sempre così in bilico quest’ultimo tra un “lèggere apparentemente diretto” e un sentirsi pedina passiva. Parrebbe chiara l’ansia della “verità schiacciante” - l’esistenza ammessa del Dio, e le sue conseguenze - : una verità che produce, a livello stilistico, un accumulo nominale, un gettar frasi (versi) come additivi stornanti. Gianfranco, al di là dell’apparenza dolce, fornisce un sentimento trattenuto di violenza inconsapevole, che riesce ad avvolge il lettore e lo fa entrare in un continuo “ossimoro” con “l’altra parte” del testo. Vengono avanti frattaglie di eros, subito connesse con l’etica e la sovrastruttura della educazione formativa. Si registrano reticenze spettacolari e anche una certa fatica nel rendere tirato a smalto il “discorso”: tant’è che la parte centrale della raccolta subisce una pur necessaria flessione generale, costituita da aspetti più convenzionali. Ma con la sezione “Ancora mattino” si risorge, grazie alla verace osservazione dell’ambiente esterno. Si perdono le filacce logico-riflessive e si procede nella coloristica di un paesaggio psico-geografico, fatto di stanze, di ore serotine e di oggetti ordinari. L’uomo, qui, ritorna alla propria sovranità, cancella i pur necessari dubbi sull’esistenza e si dichiara “animale” multiforme. Adesso è al centro della fede e si dota del Dio relativo. Il dichiararsi “cristiano”, in altri luoghi e su altre pagine, avrebbe dato fastidio: qui no. La proclamazione (non la confessione) viene esplicitata con la leggerezza, la maturità e il candore necessari a riunire l’adulto con il fanciullo, per rendere veritiero il titolo di questo libro interessante. 

 

Leggendo l’ultimo libro di Stefano Guglielmin, COME A BEATO CONFINE (Book Editore) ho avuto modo di sperimentare il senso dell’impotenza intellettuale nel comprendere subito ciò che l’autore voleva comunicarmi, circa il proprio mondo così complicato e sottile. Mi ha aiutato la citazione posta ad inizio raccolta, una magnifica frase di Deleuze che così intona: “…noi tutti diciamo “io” soltanto attraverso i mille testimoni che contemplano in noi, ma è sempre un terzo a dire io”. Con una tale, convincente dichiarazione, mi sono inoltrato nella prima delle cinque parti, intitolata: Io dovrebbe. Sin dall’inizio mi sono reso conto della trasgressione sintattica messa a disposizione dei vari frammenti: una sorta di lotta tra il significante del concetto di “io” e il verbo che lo segue. Il poeta riferisce di una storia scissa? Dà la responsabilità ad un soggetto prestanome?

Questo di Guglielmin è un libro sulla lucidità mentale. Un viaggio nei profondi lacerti della lingua: un’impresa, per certi versi, simile a quella di Zanzotto e di Celan. La battaglia del vocabolo è caratterizzata dal tentativo di avvicinarsi al significato dell’oggetto/idea prescelto. Quattro sono le sezione ulteriori: si passa da Io fatica e migra in cui il Soggetto narrante acquisisce, attraverso echi di sinestesie, peduncoli elementari del linguaggio, per mezzo dei quali l’io parrebbe volgersi ad altre forme situazionali. Neppure l’autore sa dove andare; sembrerebbe metabolizzare le alghe delle acque profonde dell’inconscio; acque fredde e concusse al buio sottomarino. La terza parte, dal titolo A nuovo rivo egli s’avvia prevede un maggiore impegno nel creare strappi sintattici. L’io parrebbe qui perdere, a poco a poco, la dignità della terza persona per acquisire un senso più vicino alla prima persona. Da uno strappo-respiro all’altro, Guglielmin ci rende un poco più edotti sull’estetica dell’urto sincopato. Tant’è che nella quarta sezione, Noi, non è difficile cogliere la tendenza del Soggetto ad accogliere proliferazioni dell’”io”. Si vedono entrare in scena, seppure in modo ancora timido ed impacciato, i “te”, i “me”, secondo una dinamica di copula carnale. L’ultima parte si intitola Dappertutto e vede l’esondare delle metastasi dell’”io” nel “noi” più stretto: una sorta di esito tumorale in fase di pre/morte. Questa sezione ci offre testi-prosa, ad effetto accumulativo, con numerose cuciture automatiche delle frasi, che talvolta si rigirano su se stesse in modo paratattico, ed altre, invece, si evidenziano con regole ipotattiche. Il poeta – mirabile operaio del sottosuolo psichico – in vista del discorso di commiato, si fa più informe e tende verso il sottovuoto spinto. Tanto informe, si fa, quanto disperato nel darsi un codice di auscultazione che serva a descrivere il mondo esterno in modo analogo a quello interiore, fin qui visitato. Si tratta di lanciare una sorta di S.O.S. agli uomini, ai figli, affinché non divengano “muti”, di fronte ai futuri, disastrosi eventi comunicativi.