Sull'avvenire della tragedia
Albert Camus


Un saggio orientale nelle sue preghiere domandava alla divinità di risparmiargli di vivere in un'epoca interessante. E la nostra epoca è interessante, vale a dire tragica. Per purificarci dai nostri mali, abbiamo almeno il teatro della nostra epoca o possiamo sperare di averlo? In altre parole, è possibile la tragedia moderna? È questa la domanda che vorrei porre oggi. Ma questa domanda è ragionevole? O piuttosto è del tipo: "avremo un buon governo?" o "i nostri scrittori diverranno modesti?" o ancora "i ricchi spartiranno presto la loro fortuna con i poveri?", domande interessanti, ma che danno più da sognare che da pensare.
Credo di no. Credo invece che per due ragioni ci si possa interrogare legittimamente sulla tragedia moderna. La prima è che i gradi periodi dell'arte tragica si collocano, nella storia, in secoli di transizione, in momenti in cui la vita dei popoli è ad un tempo pesante di gloria e di minacce. Dopo tutto Eschilo combatte due guerre e Shakespeare è contemporaneo di una bella serie di orrori. Inoltre entrambi si trovano in una sorta di pericolosa svolta nella storia della loro civiltà.
Si può rilevare che nei trenta secoli della storia occidentale, dai Dori fino alla bomba atomica, non ci sono che due periodi dell'arte tragica, entrambi circoscritti nello spazio e nel tempo. La primo è la greca, presenta una grande unitarietà e dura un secolo, da Eschilo a Euripide. La secondo dura poco più e fiorisce nei paesi limitrofi all'estremità dell'Europa occidentale. In effetti, non si è abbastanza sottolineato che la magnifica esplosione del teatro elisabettiano, il teatro spagnolo del secolo d'oro e la tragedia francese del XVII secolo sono pressoché contemporanei. Quando Shekespeare muore, Lope De Vega ha cinquantaquattro anni e ha già fatto rappresentare la gran parte delle sue pièces; Calderón e Corneille sono vivi. L'intervallo di tempo fra Shakespeare e Racine non è più lungo di quello fra Eschilo e Euripide. Almeno storicamente possiamo considerare che si tratta, con estetiche differenti, di una sola e magnifica fioritura, quella del Rinascimento, che nasce nel disordine ispirato del palcoscenico elisabettiano e raggiunge la perfezione formale nella tragedia francese.
Fra questi due momenti tragici intercorrono circa venti secoli. Durante questi venti secoli niente, niente se non il mistero cristiano, che può essere drammatico ma che non è tragico. Poi dirò perché. Si può dire quindi che si tratta di epoche eccezionali che dovrebbero, proprio per la loro singolarità, informarci sulle condizioni dell'espressione tragica. È uno studio estremamente appassionate che, a mio avviso, dovrebbe essere perseguito con rigore e pazienza, attraverso da veri e proprio storici. Ma questo è al di là delle mie competenze e vorrei solo evocare le esperienze di un uomo di teatro. Allorché si esamina il movimento di idee in queste due epoche, così come nelle opere tragiche del tempo, ci si trova di fronte ad una costante. Le due epoche segnano infatti una transizione dalle forme di un pensiero cosmico, completamente impregnate dalla nozione del divino e del sacro, ad altre forme animate invece dalla riflessione individuale e razionalista. Il movimento che va da Eschilo a Euripide è all'incirca quello che va dai grandi pensatori presocratici a Socrate (Socrate che disdegnava la tragedia faceva un'eccezione per Euripide). Allo stesso modo, da Shakespeare a Corneille si passa da un mondo di forze oscure e misteriose, che è ancora quello del Medioevo, all'universo dei valori individuali affermati e mantenuti dalla volontà umana e dalla ragione (quasi tutti i sacrifici raciniani sono sacrifici della ragione). È insomma lo stesso movimento che va dalle fervide teologie del Medioevo a Cartesio. Sebbene questa evoluzione in Grecia sia più chiara, perché più semplice e circoscritta in un solo luogo, è la stessa nei due casi. Ogni volta, nella storia delle idee, l'uomo a poco a poco si svincola da un corpo sacro e insorge contro il mondo antico del terrore e della devozione. Ogni volta, nelle opere, si passa dalla tragedia rituale e dalla celebrazione quasi religiosa, alla tragedia psicologica. E ogni volta il trionfo definitivo della ragione individuale, nel IV secolo in Grecia, nel XVIII secolo in Europa, inaridisce per lunghi secoli la produzione tragica.
Per quanto ci riguarda, quali conclusioni trarre da queste osservazioni? In primo luogo il rilevo molto generico secondo il quale l'epoca tragica sembra ogni volta coincidere con una evoluzione in cui l'uomo, coscientemente o meno, si svincola da una forma antica di civiltà e si trova di fronte ad essa in una situazione di rottura, senza per questo aver trovato una nuova forma in grado di soddisfarlo. Nel 1955, al punto in cui ci troviamo, mi sembra che la questione da porre sia sapere se la lacerazione interiore troverà per noi un'espressione tragica. I venti secoli di silenzio che separano Euripide da Shakespeare devono indurci alla prudenza. Dopo tutto la tragedia è un fiore rarissimo e la probabilità di vederlo schiudersi nella nostra epoca resta minima. Ma una seconda ragione incoraggia ancora ad interrogarsi su questa possibilità. Si tratta, questa volta, di un fenomeno molto particolare che abbiamo potuto osservare in Francia da una trentina d'anni, a partire dalla riforma di Jacques Copeau. Questo fenomeno è l'ingresso degli scrittori nel teatro, colonizzato fino ad allora dai fabbricanti e dai commercianti delle scene. L'intervento degli scrittori permette la resurrezione di forme tragiche che tendono a rimettere l'arte drammatica al posto che le compete, in cima alle arti letterarie. Prima di Copeau (eccezion fatta per Claudel che nessuno rappresentava) il luogo privilegiato del sacrificio teatrale era da noi il letto a due piazze. Quando la pièce era particolarmente riuscita i sacrifici si moltiplicavano, e anche i letti. In breve un commercio come tanti altri, dove tutto si pagava, oso dire, tanto a peso. Del resto ecco che ne diceva Copeau: " …se si vuole che nominiamo più chiaramente i sentimenti che ci animano, la passione che chi spinge, ci costringe, ci obbliga e alla quale dobbiamo infine cedere: è l'indignazione".
"Un'industrializzazione sfrenata che, di giorno in giorno più cinicamente, degrada i palcoscenici francesi e allontana il pubblico colto; l'accaparramento della maggior parte dei teatri da parte di un pugno di buffoni al soldo di mercanti spudorati; dappertutto, persino dove grandi tradizioni dovrebbero salvaguardare qualche pudore, lo stesso spirito di istrionismo e di speculazione, la stessa bassezza; ovunque il bluff, il rilancio di ogni specie e l'esibizionismo abitano come parassiti un'arte che muore, e di cui non si parla nemmeno più; ovunque ignavia, disordine, indisciplina, ignoranza e stupidità, disprezzo per il creatore, odio per la bellezza; una produzione sempre più folle e vana, una critica sempre più consenziente, un gusto pubblico sempre più distorto: ecco ciò che ci indigna e ci fa insorgere".
Dopo questo bel grido, seguito dalla fondazione del Vieux-Colombier, il nostro teatro, ed è il nostro debito inestinguibile verso Copeau, ha ritrovato poco a poco i suoi titoli nobiliari, vale a dire uno stile. Gide, Martin du Gard, Giraudoux, Montherlant, Claudel e tanti altri gli hanno restituito un fasto e delle ambizioni che erano scomparse da un secolo. Nello stesso tempo un movimento di idee e di riflessione sul teatro, di cui il prodotto più significativo è il bel libro di Antonin Artaud Il teatro e il suo doppio, l'influenza di teorici stranieri come Gordon Craig e Appia hanno posto la dimensione tragica al centro delle nostre preoccupazioni.
Confrontando tutte queste osservazioni, potrei quindi circoscrivere chiaramente il problema che volevo discutere con voi. La nostra epoca coincide con un dramma di civiltà che potrebbe favorire, oggi come in altri tempi, l'espressione tragica. Nello stesso momento, molti scrittori, in Francia e altrove, si preoccupano di dare all'epoca la sua tragedia. Se questo sogno è ragionevole, se questa impresa è possibile e a quali condizioni, ecco secondo me la domanda più attuale per chi è appassionato dal teatro come da una seconda vita. È chiaro che nessuno è oggi in grado di dare a questa domanda una risposta decisiva: "Condizioni favorevoli. Segue tragedia". Mi limiterò dunque ad alcune considerazioni che concernono questa grande speranza per gli uomini di cultura in Occidente.

Prima di tutto, cosa è una tragedia? La definizione del tragico ha impegnato molto gli storici della letteratura, e gli scrittori stessi, anche se nessuna formula ha messo tutti d'accordo. Senza pretendere di risolvere un problema di fronte al quale così tante intelligenze esitano, si può almeno procedere per confronti e tentare di vedere in cosa, per esempio, la tragedia differisca dal dramma o dal melodramma. Ecco quella che mi sembra essere la differenza: le forze che si affrontano nella tragedia sono ugualmente legittime, ugualmente armate di ragioni. Nel melodramma o nel dramma invece una sola è legittima. Vale a dire, la tragedia è ambigua, il dramma semplicista. Nella prima ogni forza è allo stesso tempo buona e malvagia. Nella seconda, l'una è il bene, l'altra il male (ed è per questo che ai giorni nostri il teatro di propaganda non è che la resurrezione del melodramma). Antigone ha ragione, ma Creonte non ha torto. Allo stesso modo, Prometeo è ad un tempo giusto e ingiusto e Zeus ha il diritto di opprimerlo senza pietà. La formula del melodramma sarebbe insomma: "Uno solo è giusto e giustificabile", mentre la formula tragica per eccellenza: "Tutti sono giustificabili, nessuno è giusto". Ecco perché il coro delle tragedie antiche esorta alla prudenza. Perché sa che entro un certo limite tutti hanno ragione e chi, per cecità o passione, ignora questo limite, insegue la catastrofe per far trionfare un diritto che crede essere il solo a detenere. Il tema costante della tragedia antica è così il limite che non bisogna oltrepassare. Prima e dopo questo limite, in un fronteggiarsi vibrante e ininterrotto, si incontrano forze ugualmente legittime. Ingannarsi circa il limite, voler rompere l'equilibrio, significa andare verso la rovina. Tanto in Macbeth che in Fedra (sebbene in maniera meno limpida che nella tragedia greca) si ritroverà l'idea di un limite che non deve essere oltrepassato, pena la morte o il disastro. Si spiega quindi perché il dramma ideale, come il dramma romantico, è prima di tutto movimento e azione: raffigura la lotta fra bene e male e le peripezie di questa lotta; invece la tragedia ideale, e particolarmente la greca, è in primo luogo tensione: è l'opposizione, in un'immobilità forsennata, di due potenze ciascuna coperta dalle doppie maschere del bene e del male. È chiaro che fra questi due modelli estremi, rappresentati dal dramma e dalla tragedia, la letteratura drammatica offre tutti gli stadi intermedi.
Ma per restare alle forme pure, quali sono le due potenze che, per esempio, si oppongono nella tragedia antica? Se si considera Prometeo incatenato come modello, è possibile dire che da una parte c'è l'uomo e il suo desiderio di potenza, dall'altra il principio divino che si riflette nel mondo. C'è tragedia quando l'uomo, per orgoglio (o anche per stupidità come Aiace), contesta l'ordine divino, personificato da un Dio o incarnato nella società. E la tragedia sarà tanto più grande quanto più la rivolta sarà legittima e l'ordine necessario.
Di conseguenza, tutto ciò che all'interno della tragedia tende a infrangere questo equilibrio distrugge la tragedia stessa. Se l'ordine divino non tollera nessuna contestazione e ammette solo il fato e il pentimento, non c'è tragedia. Può esserci esclusivamente mistero o parabola, oppure ciò che gli spagnoli chiamano atto di fede o auto sacramental, vale a dire uno spettacolo dove la verità unica viene solennemente proclamata. Il dramma religioso è quindi possibile, ma non la tragedia religiosa. Si spiega così il silenzio della tragedia fino al Rinascimento. Il cristianesimo inserisce tutto l'universo, l'uomo e il mondo, nell'ordine divino. Non c'è quindi tensione fra l'uomo e il principio divino ma, a rigore, ignoranza e difficoltà a spogliare l'uomo della carne, a rinunciare alle passioni per abbracciare la verità spirituale. Può darsi che nella storia non ci sia stata che un'unica tragedia cristiana. S'è celebrata sul Golgota in un istante impercettibile, al momento del "Mio Dio, perché mi hai abbandonato?". Questo dubbio fuggitivo, e solo questo, consacrava l'ambiguità di una situazione tragica. Poi non si è più dubitato della divinità di Cristo. La messa che ogni giorno consacra questa divinità è la vera forma di teatro religioso in occidente. Non è invenzione, è ripetizione.
In modo inverso, tutto ciò che libera l'individuo e sottomette l'universo alla sua legge totalmente umana, in particolare attraverso la negazione del mistero dell'esistenza, distrugge di nuovo la tragedia. La tragedia atea e razionalista è quindi impossibile. Se tutto è mistero, non c'è tragedia. Se tutto è ragione, neanche. La tragedia nasce fra la luce e l'ombra, e dalla loro opposizione. Ed è la che si comprende. Nel dramma religioso o ateo, il problema è risolto in anticipo. Nella tragedia ideale invece non è risolto. L'eroe si rivolta e nega l'ordine che l'opprime; il potere divino, con l'oppressione, si afferma nella misura stessa in cui lo si nega. Vale a dire che la rivolta da sola non fa una tragedia. L'affermazione dell'ordine divino neanche. Devono esserci una rivolta e un ordine, l'uno fa leva sull'altro e ognuno irrobustisce l'altro con la propria forza. Nessun Edipo senza il destino dell'oracolo. Ma il destino non avrebbe tutta la sua fatalità se Edipo non lo rifiutasse.
E se la tragedia si compie nella morte o nella punizione, è importante notare che ciò che è punito non è il crimine stesso, ma l'accecamento dell'eroe che ha negato l'equilibrio e la tensione. È chiaro, si tratta della situazione tragica ideale. Eschilo, ad esempio, che resta vicino alle tradizioni religiose e dionisiache della tragedia, al termine della trilogia accordava il suo perdono a Prometeo; le Eumenidi succedevano alle Erinni. Ma in Sofocle l'equilibrio è pressoché assoluto, e per questo è il più grande tragico di tutti i tempi. Euripide inclinerà invece la bilancia tragica verso l'individuo e la psicologia. Annuncia così il dramma individualista, ovvero la decadenza della tragedia. Se le tragedie shakespeariane sono ancora radicate in una sorta di vasto mistero cosmico che oppone un'oscura resistenza alle imprese dei suoi individui appassionati, Corneille fa trionfare la morale dell'individuo e, attraverso la perfezione, annuncia la fine di un genere.
Si è potuto scrivere così che la tragedia è in equilibrio fra i poli di un nichilismo estremo e di una speranza illimitata. Niente di più vero, a mio avviso. L'eroe nega l'ordine che lo colpisce e l'ordine divino colpisce perché è negato. Tutti e due affermano così la loro mutua esistenza nell'istante stesso in cui viene contestata. Il coro ne trae le lezione secondo la quale un ordine esiste; un ordine che può essere doloroso, ma ancor peggio sarebbe negare che esiste. L'unica purificazione risiede nel nulla negare né escludere, nell'accettare il mistero dell'esistenza, il limite dell'uomo e, da ultimo, nell'accettare quest'ordine nel quale si sa senza sapere. "Tutto è bene" dice allora Edipo, e i suoi occhi sono forati. Ormai, senza più vedere, sa che la sua notte è una luce, e su questo volto dagli occhi morti risplende la più alta lezione dell'universo tragico.
Quali conclusioni trarre? Una considerazione e un'ipotesi di lavoro, nulla più. Sembra in effetti che la tragedia nasca in Occidente ogni volta che il pendolo della civiltà è equidistante tanto da una società sacra quanto da una società costruita attorno all'uomo. A due riprese, e con un intervallo di venti secoli, ci troviamo ancora alle prese con un mondo ancora interpretato nel senso del sacro e con un uomo già investito della sua singolarità, vale a dire armato del suo potere di contestazione. In entrambi i casi, l'individuo si afferma sempre più, l'equilibrio poco a poco viene distrutto e infine lo spirito tragico tace. Quando Nietzsche accusa Socrate d'essere il becchino della tragedia antica, in una certa misura ha ragione. Nella misura esatta in cui Cartesio ha marcato la fine del movimento tragico nato nel Rinascimento. All'epoca del Rinascimento, in effetti, è l'universo cristiano tradizionale ad essere messo in causa dalla Riforma, dalla scoperta del mondo e dal fiorire dello spirito scientifico. L'individuo poco a poco insorge contro il sacro e il destino. Shakespeare scaglia allora le sue creature appassionate contro un ordine del mondo malvagio e ad un tempo giusto. La morte e la pietà invadono la scena e, di nuovo, pronunciano le parole definitive della tragedia: "Mia disperazione bambina, più alta via". Più la bilancia pende nuovamente dall'altro lato e tanto più Racine e la tragedia francese concludono il movimento tragico nella perfezione di una musica da camera. Armata da Cartesio e dallo spirito scientifico, la ragione trionfante invoca i diritti dell'individuo e svuota la scena: la tragedia scenderà nelle strade, sui teatrini sanguinanti della rivoluzione. Il romanticismo non scriverà quindi nessuna tragedia, ma solo drammi, e fra questi solo quelli di Kleist o Schiller raggiungono la vera grandezza. L'uomo è solo, non si confronta con nulla, se non con se stesso. Non è più tragico, è un avventuriero; dramma e romanzo lo raffigureranno meglio di qualsiasi altra arte. Lo spirito della tragedia sparisce fino ai nostri giorni, le guerre più mostruose della storia non hanno ispirato nessun poeta tragico.
Cosa potrebbe allora far sperare una rinascita della tragedia? Se la nostra ipotesi è valida, la nostra sola ragione di speranza è che l'individualismo di oggi si trasformi profondamente e che, sotto la pressione della storia, l'individuo riconosca poco a poco i suoi limiti. Il mondo che l'individuo del XVIII secolo credeva di poter sottomettere e plasmare grazie alla ragione a alla scienza ha in effetti preso una forma, ma una forma mostruosa. Razionale e insieme smisurato, ecco il mondo della storia. Ma a questo grado di dismisura la storia ha assunto il volto del destino. L'uomo dubita di poterla dominare, può solamente combatterla. Paradosso curioso, attraverso le stesse armi grazie alle quali aveva rigettato la fatalità, l'umanità s'è ritagliata un destino ostile. Dopo aver fatto un dio per il regno umano, l'uomo di nuovo gli si rivolta contro. Contesta, combattente e insieme smarrito è diviso fra la speranza assoluta e il dubbio definitivo. Vive in un ambiente tragico. Questo forse spiega perché la tragedia voglia rinascere. L'uomo d'oggi che grida la sua rivolta sapendo che essa ha dei limiti, che esige la libertà e subisce la necessità, quest'uomo contraddittorio, sradicato, ormai cosciente della sua ambiguità e di quella della storia, quest'uomo è l'uomo tragico per eccellenza. Si dirige forse verso la formulazione della sua tragedia che sarà compiuta il giorno del "Tutto è bene".


(traduzione di Lorenzo Chiuchiù)