Un saggio orientale nelle sue preghiere domandava alla divinità di risparmiargli
di vivere in un'epoca interessante. E la nostra epoca è interessante,
vale a dire tragica. Per purificarci dai nostri mali, abbiamo almeno il teatro
della nostra epoca o possiamo sperare di averlo? In altre parole, è possibile
la tragedia moderna? È questa la domanda che vorrei porre oggi. Ma questa
domanda è ragionevole? O piuttosto è del tipo: "avremo un
buon governo?" o "i nostri scrittori diverranno modesti?" o ancora
"i ricchi spartiranno presto la loro fortuna con i poveri?", domande
interessanti, ma che danno più da sognare che da pensare.
Credo di no. Credo invece che per due ragioni ci si possa interrogare legittimamente
sulla tragedia moderna. La prima è che i gradi periodi dell'arte tragica
si collocano, nella storia, in secoli di transizione, in momenti in cui la vita
dei popoli è ad un tempo pesante di gloria e di minacce. Dopo tutto Eschilo
combatte due guerre e Shakespeare è contemporaneo di una bella serie
di orrori. Inoltre entrambi si trovano in una sorta di pericolosa svolta nella
storia della loro civiltà.
Si può rilevare che nei trenta secoli della storia occidentale, dai Dori
fino alla bomba atomica, non ci sono che due periodi dell'arte tragica, entrambi
circoscritti nello spazio e nel tempo. La primo è la greca, presenta
una grande unitarietà e dura un secolo, da Eschilo a Euripide. La secondo
dura poco più e fiorisce nei paesi limitrofi all'estremità dell'Europa
occidentale. In effetti, non si è abbastanza sottolineato che la magnifica
esplosione del teatro elisabettiano, il teatro spagnolo del secolo d'oro e la
tragedia francese del XVII secolo sono pressoché contemporanei. Quando
Shekespeare muore, Lope De Vega ha cinquantaquattro anni e ha già fatto
rappresentare la gran parte delle sue pièces; Calderón e Corneille
sono vivi. L'intervallo di tempo fra Shakespeare e Racine non è più
lungo di quello fra Eschilo e Euripide. Almeno storicamente possiamo considerare
che si tratta, con estetiche differenti, di una sola e magnifica fioritura,
quella del Rinascimento, che nasce nel disordine ispirato del palcoscenico elisabettiano
e raggiunge la perfezione formale nella tragedia francese.
Fra questi due momenti tragici intercorrono circa venti secoli. Durante questi
venti secoli niente, niente se non il mistero cristiano, che può essere
drammatico ma che non è tragico. Poi dirò perché. Si può
dire quindi che si tratta di epoche eccezionali che dovrebbero, proprio per
la loro singolarità, informarci sulle condizioni dell'espressione tragica.
È uno studio estremamente appassionate che, a mio avviso, dovrebbe essere
perseguito con rigore e pazienza, attraverso da veri e proprio storici. Ma questo
è al di là delle mie competenze e vorrei solo evocare le esperienze
di un uomo di teatro. Allorché si esamina il movimento di idee in queste
due epoche, così come nelle opere tragiche del tempo, ci si trova di
fronte ad una costante. Le due epoche segnano infatti una transizione dalle
forme di un pensiero cosmico, completamente impregnate dalla nozione del divino
e del sacro, ad altre forme animate invece dalla riflessione individuale e razionalista.
Il movimento che va da Eschilo a Euripide è all'incirca quello che va
dai grandi pensatori presocratici a Socrate (Socrate che disdegnava la tragedia
faceva un'eccezione per Euripide). Allo stesso modo, da Shakespeare a Corneille
si passa da un mondo di forze oscure e misteriose, che è ancora quello
del Medioevo, all'universo dei valori individuali affermati e mantenuti dalla
volontà umana e dalla ragione (quasi tutti i sacrifici raciniani sono
sacrifici della ragione). È insomma lo stesso movimento che va dalle
fervide teologie del Medioevo a Cartesio. Sebbene questa evoluzione in Grecia
sia più chiara, perché più semplice e circoscritta in un
solo luogo, è la stessa nei due casi. Ogni volta, nella storia delle
idee, l'uomo a poco a poco si svincola da un corpo sacro e insorge contro il
mondo antico del terrore e della devozione. Ogni volta, nelle opere, si passa
dalla tragedia rituale e dalla celebrazione quasi religiosa, alla tragedia psicologica.
E ogni volta il trionfo definitivo della ragione individuale, nel IV secolo
in Grecia, nel XVIII secolo in Europa, inaridisce per lunghi secoli la produzione
tragica.
Per quanto ci riguarda, quali conclusioni trarre da queste osservazioni? In
primo luogo il rilevo molto generico secondo il quale l'epoca tragica sembra
ogni volta coincidere con una evoluzione in cui l'uomo, coscientemente o meno,
si svincola da una forma antica di civiltà e si trova di fronte ad essa
in una situazione di rottura, senza per questo aver trovato una nuova forma
in grado di soddisfarlo. Nel 1955, al punto in cui ci troviamo, mi sembra che
la questione da porre sia sapere se la lacerazione interiore troverà
per noi un'espressione tragica. I venti secoli di silenzio che separano Euripide
da Shakespeare devono indurci alla prudenza. Dopo tutto la tragedia è
un fiore rarissimo e la probabilità di vederlo schiudersi nella nostra
epoca resta minima. Ma una seconda ragione incoraggia ancora ad interrogarsi
su questa possibilità. Si tratta, questa volta, di un fenomeno molto
particolare che abbiamo potuto osservare in Francia da una trentina d'anni,
a partire dalla riforma di Jacques Copeau. Questo fenomeno è l'ingresso
degli scrittori nel teatro, colonizzato fino ad allora dai fabbricanti e dai
commercianti delle scene. L'intervento degli scrittori permette la resurrezione
di forme tragiche che tendono a rimettere l'arte drammatica al posto che le
compete, in cima alle arti letterarie. Prima di Copeau (eccezion fatta per Claudel
che nessuno rappresentava) il luogo privilegiato del sacrificio teatrale era
da noi il letto a due piazze. Quando la pièce era particolarmente riuscita
i sacrifici si moltiplicavano, e anche i letti. In breve un commercio come tanti
altri, dove tutto si pagava, oso dire, tanto a peso. Del resto ecco che ne diceva
Copeau: "
se si vuole che nominiamo più chiaramente i sentimenti
che ci animano, la passione che chi spinge, ci costringe, ci obbliga e alla
quale dobbiamo infine cedere: è l'indignazione".
"Un'industrializzazione sfrenata che, di giorno in giorno più cinicamente,
degrada i palcoscenici francesi e allontana il pubblico colto; l'accaparramento
della maggior parte dei teatri da parte di un pugno di buffoni al soldo di mercanti
spudorati; dappertutto, persino dove grandi tradizioni dovrebbero salvaguardare
qualche pudore, lo stesso spirito di istrionismo e di speculazione, la stessa
bassezza; ovunque il bluff, il rilancio di ogni specie e l'esibizionismo abitano
come parassiti un'arte che muore, e di cui non si parla nemmeno più;
ovunque ignavia, disordine, indisciplina, ignoranza e stupidità, disprezzo
per il creatore, odio per la bellezza; una produzione sempre più folle
e vana, una critica sempre più consenziente, un gusto pubblico sempre
più distorto: ecco ciò che ci indigna e ci fa insorgere".
Dopo questo bel grido, seguito dalla fondazione del Vieux-Colombier, il nostro
teatro, ed è il nostro debito inestinguibile verso Copeau, ha ritrovato
poco a poco i suoi titoli nobiliari, vale a dire uno stile. Gide, Martin du
Gard, Giraudoux, Montherlant, Claudel e tanti altri gli hanno restituito un
fasto e delle ambizioni che erano scomparse da un secolo. Nello stesso tempo
un movimento di idee e di riflessione sul teatro, di cui il prodotto più
significativo è il bel libro di Antonin Artaud Il teatro e il suo doppio,
l'influenza di teorici stranieri come Gordon Craig e Appia hanno posto la dimensione
tragica al centro delle nostre preoccupazioni.
Confrontando tutte queste osservazioni, potrei quindi circoscrivere chiaramente
il problema che volevo discutere con voi. La nostra epoca coincide con un dramma
di civiltà che potrebbe favorire, oggi come in altri tempi, l'espressione
tragica. Nello stesso momento, molti scrittori, in Francia e altrove, si preoccupano
di dare all'epoca la sua tragedia. Se questo sogno è ragionevole, se
questa impresa è possibile e a quali condizioni, ecco secondo me la domanda
più attuale per chi è appassionato dal teatro come da una seconda
vita. È chiaro che nessuno è oggi in grado di dare a questa domanda
una risposta decisiva: "Condizioni favorevoli. Segue tragedia". Mi
limiterò dunque ad alcune considerazioni che concernono questa grande
speranza per gli uomini di cultura in Occidente.
Prima di tutto, cosa
è una tragedia? La definizione del tragico ha impegnato molto gli storici
della letteratura, e gli scrittori stessi, anche se nessuna formula ha messo
tutti d'accordo. Senza pretendere di risolvere un problema di fronte al quale
così tante intelligenze esitano, si può almeno procedere per confronti
e tentare di vedere in cosa, per esempio, la tragedia differisca dal dramma
o dal melodramma. Ecco quella che mi sembra essere la differenza: le forze che
si affrontano nella tragedia sono ugualmente legittime, ugualmente armate di
ragioni. Nel melodramma o nel dramma invece una sola è legittima. Vale
a dire, la tragedia è ambigua, il dramma semplicista. Nella prima ogni
forza è allo stesso tempo buona e malvagia. Nella seconda, l'una è
il bene, l'altra il male (ed è per questo che ai giorni nostri il teatro
di propaganda non è che la resurrezione del melodramma). Antigone ha
ragione, ma Creonte non ha torto. Allo stesso modo, Prometeo è ad un
tempo giusto e ingiusto e Zeus ha il diritto di opprimerlo senza pietà.
La formula del melodramma sarebbe insomma: "Uno solo è giusto e
giustificabile", mentre la formula tragica per eccellenza: "Tutti
sono giustificabili, nessuno è giusto". Ecco perché il coro
delle tragedie antiche esorta alla prudenza. Perché sa che entro un certo
limite tutti hanno ragione e chi, per cecità o passione, ignora questo
limite, insegue la catastrofe per far trionfare un diritto che crede essere
il solo a detenere. Il tema costante della tragedia antica è così
il limite che non bisogna oltrepassare. Prima e dopo questo limite, in un fronteggiarsi
vibrante e ininterrotto, si incontrano forze ugualmente legittime. Ingannarsi
circa il limite, voler rompere l'equilibrio, significa andare verso la rovina.
Tanto in Macbeth che in Fedra (sebbene in maniera meno limpida che nella tragedia
greca) si ritroverà l'idea di un limite che non deve essere oltrepassato,
pena la morte o il disastro. Si spiega quindi perché il dramma ideale,
come il dramma romantico, è prima di tutto movimento e azione: raffigura
la lotta fra bene e male e le peripezie di questa lotta; invece la tragedia
ideale, e particolarmente la greca, è in primo luogo tensione: è
l'opposizione, in un'immobilità forsennata, di due potenze ciascuna coperta
dalle doppie maschere del bene e del male. È chiaro che fra questi due
modelli estremi, rappresentati dal dramma e dalla tragedia, la letteratura drammatica
offre tutti gli stadi intermedi.
Ma per restare alle forme pure, quali sono le due potenze che, per esempio,
si oppongono nella tragedia antica? Se si considera Prometeo incatenato come
modello, è possibile dire che da una parte c'è l'uomo e il suo
desiderio di potenza, dall'altra il principio divino che si riflette nel mondo.
C'è tragedia quando l'uomo, per orgoglio (o anche per stupidità
come Aiace), contesta l'ordine divino, personificato da un Dio o incarnato nella
società. E la tragedia sarà tanto più grande quanto più
la rivolta sarà legittima e l'ordine necessario.
Di conseguenza, tutto ciò che all'interno della tragedia tende a infrangere
questo equilibrio distrugge la tragedia stessa. Se l'ordine divino non tollera
nessuna contestazione e ammette solo il fato e il pentimento, non c'è
tragedia. Può esserci esclusivamente mistero o parabola, oppure ciò
che gli spagnoli chiamano atto di fede o auto sacramental, vale a dire uno spettacolo
dove la verità unica viene solennemente proclamata. Il dramma religioso
è quindi possibile, ma non la tragedia religiosa. Si spiega così
il silenzio della tragedia fino al Rinascimento. Il cristianesimo inserisce
tutto l'universo, l'uomo e il mondo, nell'ordine divino. Non c'è quindi
tensione fra l'uomo e il principio divino ma, a rigore, ignoranza e difficoltà
a spogliare l'uomo della carne, a rinunciare alle passioni per abbracciare la
verità spirituale. Può darsi che nella storia non ci sia stata
che un'unica tragedia cristiana. S'è celebrata sul Golgota in un istante
impercettibile, al momento del "Mio Dio, perché mi hai abbandonato?".
Questo dubbio fuggitivo, e solo questo, consacrava l'ambiguità di una
situazione tragica. Poi non si è più dubitato della divinità
di Cristo. La messa che ogni giorno consacra questa divinità è
la vera forma di teatro religioso in occidente. Non è invenzione, è
ripetizione.
In modo inverso, tutto ciò che libera l'individuo e sottomette l'universo
alla sua legge totalmente umana, in particolare attraverso la negazione del
mistero dell'esistenza, distrugge di nuovo la tragedia. La tragedia atea e razionalista
è quindi impossibile. Se tutto è mistero, non c'è tragedia.
Se tutto è ragione, neanche. La tragedia nasce fra la luce e l'ombra,
e dalla loro opposizione. Ed è la che si comprende. Nel dramma religioso
o ateo, il problema è risolto in anticipo. Nella tragedia ideale invece
non è risolto. L'eroe si rivolta e nega l'ordine che l'opprime; il potere
divino, con l'oppressione, si afferma nella misura stessa in cui lo si nega.
Vale a dire che la rivolta da sola non fa una tragedia. L'affermazione dell'ordine
divino neanche. Devono esserci una rivolta e un ordine, l'uno fa leva sull'altro
e ognuno irrobustisce l'altro con la propria forza. Nessun Edipo senza il destino
dell'oracolo. Ma il destino non avrebbe tutta la sua fatalità se Edipo
non lo rifiutasse.
E se la tragedia si compie nella morte o nella punizione, è importante
notare che ciò che è punito non è il crimine stesso, ma
l'accecamento dell'eroe che ha negato l'equilibrio e la tensione. È chiaro,
si tratta della situazione tragica ideale. Eschilo, ad esempio, che resta vicino
alle tradizioni religiose e dionisiache della tragedia, al termine della trilogia
accordava il suo perdono a Prometeo; le Eumenidi succedevano alle Erinni. Ma
in Sofocle l'equilibrio è pressoché assoluto, e per questo è
il più grande tragico di tutti i tempi. Euripide inclinerà invece
la bilancia tragica verso l'individuo e la psicologia. Annuncia così
il dramma individualista, ovvero la decadenza della tragedia. Se le tragedie
shakespeariane sono ancora radicate in una sorta di vasto mistero cosmico che
oppone un'oscura resistenza alle imprese dei suoi individui appassionati, Corneille
fa trionfare la morale dell'individuo e, attraverso la perfezione, annuncia
la fine di un genere.
Si è potuto scrivere così che la tragedia è in equilibrio
fra i poli di un nichilismo estremo e di una speranza illimitata. Niente di
più vero, a mio avviso. L'eroe nega l'ordine che lo colpisce e l'ordine
divino colpisce perché è negato. Tutti e due affermano così
la loro mutua esistenza nell'istante stesso in cui viene contestata. Il coro
ne trae le lezione secondo la quale un ordine esiste; un ordine che può
essere doloroso, ma ancor peggio sarebbe negare che esiste. L'unica purificazione
risiede nel nulla negare né escludere, nell'accettare il mistero dell'esistenza,
il limite dell'uomo e, da ultimo, nell'accettare quest'ordine nel quale si sa
senza sapere. "Tutto è bene" dice allora Edipo, e i suoi occhi
sono forati. Ormai, senza più vedere, sa che la sua notte è una
luce, e su questo volto dagli occhi morti risplende la più alta lezione
dell'universo tragico.
Quali conclusioni trarre? Una considerazione e un'ipotesi di lavoro, nulla più.
Sembra in effetti che la tragedia nasca in Occidente ogni volta che il pendolo
della civiltà è equidistante tanto da una società sacra
quanto da una società costruita attorno all'uomo. A due riprese, e con
un intervallo di venti secoli, ci troviamo ancora alle prese con un mondo ancora
interpretato nel senso del sacro e con un uomo già investito della sua
singolarità, vale a dire armato del suo potere di contestazione. In entrambi
i casi, l'individuo si afferma sempre più, l'equilibrio poco a poco viene
distrutto e infine lo spirito tragico tace. Quando Nietzsche accusa Socrate
d'essere il becchino della tragedia antica, in una certa misura ha ragione.
Nella misura esatta in cui Cartesio ha marcato la fine del movimento tragico
nato nel Rinascimento. All'epoca del Rinascimento, in effetti, è l'universo
cristiano tradizionale ad essere messo in causa dalla Riforma, dalla scoperta
del mondo e dal fiorire dello spirito scientifico. L'individuo poco a poco insorge
contro il sacro e il destino. Shakespeare scaglia allora le sue creature appassionate
contro un ordine del mondo malvagio e ad un tempo giusto. La morte e la pietà
invadono la scena e, di nuovo, pronunciano le parole definitive della tragedia:
"Mia disperazione bambina, più alta via". Più la bilancia
pende nuovamente dall'altro lato e tanto più Racine e la tragedia francese
concludono il movimento tragico nella perfezione di una musica da camera. Armata
da Cartesio e dallo spirito scientifico, la ragione trionfante invoca i diritti
dell'individuo e svuota la scena: la tragedia scenderà nelle strade,
sui teatrini sanguinanti della rivoluzione. Il romanticismo non scriverà
quindi nessuna tragedia, ma solo drammi, e fra questi solo quelli di Kleist
o Schiller raggiungono la vera grandezza. L'uomo è solo, non si confronta
con nulla, se non con se stesso. Non è più tragico, è un
avventuriero; dramma e romanzo lo raffigureranno meglio di qualsiasi altra arte.
Lo spirito della tragedia sparisce fino ai nostri giorni, le guerre più
mostruose della storia non hanno ispirato nessun poeta tragico.
Cosa potrebbe allora far sperare una rinascita della tragedia? Se la nostra
ipotesi è valida, la nostra sola ragione di speranza è che l'individualismo
di oggi si trasformi profondamente e che, sotto la pressione della storia, l'individuo
riconosca poco a poco i suoi limiti. Il mondo che l'individuo del XVIII secolo
credeva di poter sottomettere e plasmare grazie alla ragione a alla scienza
ha in effetti preso una forma, ma una forma mostruosa. Razionale e insieme smisurato,
ecco il mondo della storia. Ma a questo grado di dismisura la storia ha assunto
il volto del destino. L'uomo dubita di poterla dominare, può solamente
combatterla. Paradosso curioso, attraverso le stesse armi grazie alle quali
aveva rigettato la fatalità, l'umanità s'è ritagliata un
destino ostile. Dopo aver fatto un dio per il regno umano, l'uomo di nuovo gli
si rivolta contro. Contesta, combattente e insieme smarrito è diviso
fra la speranza assoluta e il dubbio definitivo. Vive in un ambiente tragico.
Questo forse spiega perché la tragedia voglia rinascere. L'uomo d'oggi
che grida la sua rivolta sapendo che essa ha dei limiti, che esige la libertà
e subisce la necessità, quest'uomo contraddittorio, sradicato, ormai
cosciente della sua ambiguità e di quella della storia, quest'uomo è
l'uomo tragico per eccellenza. Si dirige forse verso la formulazione della sua
tragedia che sarà compiuta il giorno del "Tutto è bene".
(traduzione di Lorenzo Chiuchiù)