Andrea Leone, L'ORDINE - La vita felice, Niebo 2006 (da http://lapoesiaelospirito.wordpress.com)

«Ci sono soltanto due trascendenze verbali: i teoremi matematici e la parola come arte» (Gottfried Benn, Futuro e presente). L'ordine di Andrea Leone muove da queste due trascendenze per costringerle ad una collisione violenta. Trascendenza del teorema che esibisce il tragico come insuperabile tratto destinale, trascendenza della prosa come arte che brucia il finito nell'astrazione più inflessibile. Sono queste forme di un giudizio inappellabile che investe l'esistenza, illuminandola di una luce livida e insieme aurorale. Giudizio di chi? Non di un io. Andrea Leone è un lirico, ma è forse necessario tentare di definire in che senso lo si afferma. In Andrea Leone il lirismo non è infatti assimilabile alla tradizione che ne ha definito il concetto. I versi de L'ordine non credono al soggetto, al singolo, alla storia.

«L'ordine è un libro del nord», scrive Milo De Angelis. Accade che il nord impassibile, simile ad una coordinata astrale, di colpo precipiti nella biografia: iniziano così le guerre di cui parla Rimbaud: «Il combattimento spirituale è brutale come la battaglia d'uomini (Una stagione all'inferno). Il combattimento spirituale, quello che esige tutto dalla parola («ciò che noi vogliamo è tutto» sentenzia Hölderlin ne il Frammento di Iperione), decide del destino del poeta. Nessuna salvezza personale se non è affidata al verso, al suo rischio gratuito: sono solo i versi a giudicare il poeta, a condannarlo o a graziarlo. Andrea Leone guarda alla tradizione che ridefinisce il senso del lirico: si pensi alle epifanie di Hölderlin che precipitano nell'impronunciabile che proprio in quanto tale deve essere pronunciato, alle stelle struggenti di Trakl che intercettano lo sguardo del poeta, costringendolo al rischio della morte o della follia; si pensi infine all'estinzione come referto autografo in Benn. «Voglio affilare al secolo il referto di un inferno», scrive Andrea Leone. E ancora: «È un ordine: impara / a distruggere. / È un ordine: impara nell'ora morta l'ora spietata, impara / la Grecia e la Germania». Il poeta deve «dissezionare la luce» perché questa violenza restituisca alla pagina la vita che «fugge via, bellissima», perché «tutte le mattine/ tutti i cori e i calendari» ritornino pronunciabili: «Ritorna,/ quieta, uguale / stagione giovane delle fortune».

La lirica di Leone sembra farsi carico di un'antica sapienza: «Molte sono le cose terribili, scrive Sofocle, ma la più terribile è l'uomo» (Ant., v. 322). Ecco il deinon, il “terribile” di Sofocle, o seguendo due differenti traduzioni di Hölderlin, ecco l'«immane» e la «violenza». Terribile la voce che esige l'irripetibile, che evoca destini per farli a brani, che misura le ere con il cronometro. La sospensione del tempo, l'atemporalità lunare di alcuni versi de L'ordine rivela uno spasmo del continuum: «Un intero anno non accadde», segue un puntuale, monadico, excessus mentis: «Esattezza. Violenza. Meta. Frana. Fortuna. Vittima. Ultima anima. Insalvabili mattatoi matematici. Istanti degli efferati collassi e calcoli. Formule del termine». La vita, racchiusa «nel segreto empio del tempo», emette la sua sentenza: «Eterno è ciò che si è perso». Non restano che «sostantivi monolitici e precisi» (Milo De Angelis), pietre che nel deserto erigono torri silenziose e ingiunzioni. Nessuna consolazione dalla vita che pure è apparsa indubitabile nella sua forza costrittiva. La trascendenza cui fa riferimento Benn riprecipita sempre nel mondo sublunare, non ascende all'iperuranio; e non è per intrinseca debolezza ma perché la vita è quell'apeiron che, come insegna Giovanni Semerano, lungi dall'essere «l'infinito», o peggio «l'indistinto», è la verità innumerevole e a tratti ustoria della polvere.

In questo senso non esiste in Leone la dimensione onirica: non esiste la trasgressione che elude, la fuga nell'innocuo indeterminato cui segue un risveglio con un rimpianto o un sospiro di sollievo.

Qualcuno scrive: «Eseguo, geometrico e violento, il segreto»: solo nel segreto di un remoto, «eterno teatro», solo dall'ossessione di una veglia lucidissima può risuonare un «grido di grazia». Grazia per la polvere, per la vita.

Lorenzo Chiuchiù